Nel movimentato cortile dell’Accademia di Belle Arti di Venezia ho intervistato Paolo Tarelli, anti-social per eccellenza, gozzovigliatore professionista, ma con una forte motivazione. Anni 27, quasi 28, nato e formato a San Donà di Piave, Paolo mi accoglie con tutte le accortezze del caso, confidandomi prima dell’inizio dell’intervista, che non si era preparato nessun discorso; gli sorrido e con uno sguardo lusingato giro la prima delle tante sigarette della giornata.
“Io sono anti-social. Li considero una perdita di tempo, anche se incomincio a capire le loro potenzialità. Anche il mio professore ha detto che dovrei farmi Instagram”.
Si diploma all’Istituto d’Arte di Venezia iscrivendosi poi all’Accademia di Belle Arti al corso d’incisione. Corso che però abbandona poco prima della fine del primo anno, disilluso dalle sue aspettative. Paolo ha sempre lavorato d’estate in un villaggio turistico a Jesolo, dov’è riuscito a guadagnare abbastanza soldi per intraprendere un viaggio in Australia. Lì impara l’inglese, viaggia e gozzoviglia nei diversi ostelli della costa conoscendo persone da ogni parte del mondo, lavorando nel settore della ristorazione e poi nelle “Farm”.
“Un po’ l’ho sempre saputo che avrei dipinto, già alle elementari la maestra enfatizzava in continuazione le mie abilità davanti ai miei genitori; è per questo forse che hanno insistito per iscrivermi all’Istituto d’Arte. Ah, alle superiori facevo graffiti, la mia tag era BUSE”.
Alla domanda del perché abbia deciso di iscriversi nuovamente in Accademia, Paolo mi parla delle continue esaltazioni dei suoi disegni che la maestra faceva a sua mamma e, quasi distrattamente, mi racconta la sua esperienza da “graffittaro” durante le superiori. In accademia lavora nel suo studio 3×2, che condivide con due colleghi, guardando e conversando con la tela. Utilizza principalmente supporti di piccole dimensioni impaurito dai vuoti dell’horror vacui che procurano le grandi opere.
“La pittura ti lascia molta più libertà rispetto ad altre tecniche, come l’incisione. Non mi piace lanciarmi sulla tela, preferisco guardarla e riflettere. A volte la soluzione è non dipingere. Quando decido cosa fare, la fotografo per seguirne lo schema e utilizzo tonalità di colore equivalenti alla realtà”.
Gli street artist Peeta, Panda, Secse, Ericailcane lo hanno spinto a concentrarsi sul colore; Hans Arp e Max Ernst lo hanno ispirato per le loro capacità di cogliere e analizzare la realtà.
“Combatteva le atrocità della guerra con la morbidezza delle sue sculture”. Così Paolo esalta l’artista francese, ripercorrendo la storia del movimento artistico Dadaista dei primi anni del dopo guerra. Come accadeva prima di dr. Google, segue i movimenti culturali con fanzine e riviste del settore. Critica la ridondanza delle produzioni artistiche moderne e delle continue mescolature che vengono fatte da alcuni artisti.
“Il soggetto che ritraggo è inserito in un luogo, a me piace pensare che quel luogo non ci sia”.
Paolo valorizza i suoi soggetti escludendoli dal dipinto e tracciandone solo i contorni. Questo escamotage stimola una ricerca attraverso un percorso che rende essenziale, da parte del fruitore, l’individuazione dell’esterno (sfondo) per delineare l’interno (soggetto). Come i writers si nascondono dietro una tag, il soggetto dei suoi quadri si nasconde nello sfondo, che emerge con l’uso di vari tonalità e tecniche pittoriche.
“L’arte è un mezzo per porre delle domande al più vasto numero di persone stimolando la loro curiosità.”
Assaggialo.
P.T.