Veronica Brugnerotto e lo spoglio del Realismo

 

Mentre cammino per andare a intervistare Veronica sono un po’ nervoso. Sarebbe stata la mia prima intervista e armato solo di un quadernetto decisamente troppo piccolo e una penna mezza scarica, mi avvicino alla meta accompagnato da un cielo tinto di blu.
Dopo esserci presentati, ci stringiamo la mano e questa ragazza, dall’aspetto timido ma dallo sguardo saldo e dello stesso colore del lenzuolo azzurro sopra le nostre teste, mi confida subito che sarebbe stata la sua prima intervista ed era un po’ preoccupata. In quel momento capisco già che sarebbe andata bene. Confortandoci a vicenda, abbiamo affrontato la nostra “prima volta” entrambi con una mano sulla fronte per ripararci gli occhi dal sole.

Veronica Brugnerotto, nata il 27 Settembre 1995 è iscritta al quarto anno dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, dopo aver studiato al liceo artistico di Treviso. Mi racconta di come avesse saputo fin da quando era bambina che questa era la strada che voleva percorrere, mentre al posto di ascoltare le lezioni dell’insegnante, disegnava il campanile che sporgeva dalla finestra; però, i primi tempi all’Accademia non sono stati proprio facili.

“Sono entrata in confusione totale, ma ho elaborato la situazione iniziando a fare quello che sapevo fare: ritratti iper realistici. Ora invece li sto spogliando, i miei quadri sono muti e spero che siano i colori, alla fine, a parlare. Anche al posto mio”.

A questo punto mi son sentito in dovere di chiederle qualche artista di riferimento, e riesco inizialmente a strapparle due nomi: Max Neumann e Luc Tuymans. Ma non mi bastava, perchè me li citava a livello tecnico, sapevo che c’era ben altro, avevo la sensazione che mancasse quella benzina che ti fa andare dritto come un treno per le tue idee sin dalla Scuola Media fino all’Accademia di Venezia.

Mentre continuo la mia indagine, Veronica mi racconta di quanto siano importanti per lei i colori primari, di come poi ne derivi qualsiasi altra gradazione cromatica, di come vada alla ricerca dell’equilibrio di quelli complementari e dell’importanza che riesce a trovare nel Bianco, fino a considerarlo come se fosse un colore primario.

“I miei lavori possono disorientare, ma in parte è quello che voglio. Perchè il realismo, infondo, già lo conosciamo. Per me il vuoto è pieno di colore e il bianco, invece, rappresenta il significato”.

Con questa frase riesce a racchiudermi brevemente come si è evoluta in questi quattro anni, partendo da un iper realismo e poi passo dopo passo, alla ricerca di uno spoglio sfumato di un soggetto, per metterci in confusione. Insomma, vuole metterci un po’ a disagio, penso io. Ed è proprio a questo punto che Veronica mi racconta del suo amore, sin da piccola, per René Magritte, di come gestiva i vuoti e gli spazi, dando profondità e pesantezza alla figura umana, pur essendo piatta. Ero forse finalmente riuscito a inquadrare Veronica?

Per tutta l’intervista ho cercato di non porle domande troppo mirate, perchè una cosa l’avevo capita molto bene: per lei, dal momento in cui si va a concretizzare un’idea o una forma d’espressione, non è più arte. E anche se mi sarebbe piaciuto molto definirla una specie di saboteur tranquille, non posso e non voglio farlo. Perchè Veronica è ben altro, lei è vuoto e colore in evoluzione costante. Anzi, non va proprio definita, come penso che preferirebbe lei. E quindi ora mi fermo nel raccontarvela. Ora spetta a voi.

“Noi siamo i compagni di noi stessi e io elaboro tutto in introspettiva”, mi dice Veronica.
“Io son chi sono” diceva il Marchese ne La Locandiera di Carlo Goldoni.

Io dico: “assaggialo”.

 

Marco Cossaro

 

 

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