A me non piace la fotografia. Non c’ho mai capito nulla.
Facciamo un passo alla volta: questo non vuol dire che la svaluti. Anzi, è sempre stato per me motivo di vergogna non riuscire ad avere alcuna relazione con questa forma d’arte.
Sono affezionato a una foto, una soltanto. E’ anche parecchio famosa e ultimamente alquanto commercializzata. Parlo di “Bacio” di Robert Doisneau, la cui stampa era appesa lungo tutta la parete della camera da letto di mio zio, dove giocavo da piccolo.
Tra le memorie di macchinine sfreccianti, cowboy e indiani, c’è anche quel bacio.
Il 19 Giugno mi dirigo verso lo Studio del fotografo Ugo Carmeni per intervistarlo. Come potrete immaginare sono molto nervoso, cosa potrei mai chiedergli io?
Vengo accolto dalle sue tre assistenti Margherita, Anna e Francesca, che si accomodano vicino a me e a Ugo per ascoltare l’intervista. Sono il tipo di persona che tende a ironizzare sulle sue brutte figure e ricordo benissimo quella mezza risatina che mi è sfuggita, una volta realizzato di avere pure il pubblico prima di fare una bella figuraccia, in quanto a intervistatore.
Ugo Carmeni, nato il 27 Luglio del 1976, laureato in Architettura con il massimo dei voti all’Università IUAV di Venezia, per fortuna è molto gentile. E seduto tranquillo sulla sua poltrona mi racconta della sua passione per la cartografia, per le scienze cognitive e spaziali, e infine della sua tesi di laurea su mappe antiche.
“La fotografia non dista così tanto dalle mappe antiche che studiavo, è pur sempre una traduzione su un piano bidimensionale di una mia percezione del mondo.”
Sorpreso e stupito dal suo paragone, inizio a martellarlo di domande per provare finalmente a capire qualcosa di questo mondo a me sconosciuto.
“Il mondo delle arti visive mi ha sempre attratto, perchè implica un modo di comunicare immediato e non è lineare come un racconto scritto. Personalmente utilizzo la fotografia per trasmettere qualcosa di non meramente realistico, ponendo il fruitore in relazione con qualcosa che pertiene più il mondo sub-conscio e onirico, strappando alla realtà l’immagine rappresentata.”
Mentre continuiamo a parlare sento di essere sulla strada giusta, ma ho bisogno di paragonare la fotografia con un mondo a me più conosciuto e masticato. Gli chiedo quindi, con un mezzo ghigno, se si sente un po’ un pittore.
“Rispetto alla pittura la fotografia t’immerge in qualcosa che tende al realismo, anche se di realismo non si tratta. Certamente mi piace portare un po’ di caos nelle mie foto, perchè il regno dell’inconscio è il regno del caos. Mi sono sempre scontrato e ho sempre scavato nella vita verso le cose che non capivo molto.”
Dopo quest’ultima confessione inizio a sentirmi più a mio agio e, forse come aveva fatto Ugo, inizio a scavare ancora per capirne qualcosa di più.
“Nel momento in cui io faccio un disegno, quello che cerco di rappresentare per fartelo vedere, prima lo vedo con i miei occhi, poi viene processato nella mia mente e prodotto dalla mia mano. E’ un’espressione corporea e tu, di tuo, percepisci e vai in empatia con la mia espressione corporea perchè leggi con il tuo corpo. Se invece vedo un paesaggio che mi piace e lo fotografo, non c’è un’espressione corporea. C’è una mia idea a cui poi concedo la traduzione a una pellicola che obbedisce a leggi chimico fisiche non naturali o corporee. Quindi nel momento in cui lo passo a te, Marco, il tuo corpo legge qualcosa che deriva da un sensore e non da un’altra espressione corporea. Per questo è più difficile entrarne in empatia.”
Una delle foto che mi ha colpito di più nel suo studio. Giocateci anche voi. Cosa vedete?
Nessuno mi aveva mai spiegato così bene questo passaggio, e Ugo è così gentile da condividere come questo tema venga concettualizzato.
“C’è un equivoco tra reale e irreale che sembra racchiudere in uno scatto un ricordo. In realtà uno scatto è un frammento di memoria – fa notare Massimo Cacciare in una notevole intervista rilasciata a Paolo Costantini – a cui tu, che hai scattato la foto, associ un ricordo, ma gli altri che la vedono non hanno alcun ricordo a cui associarlo, per questo non hanno necessariamente un trasporto emotivo. Questo è il limite, direi attraente, dell’utilizzo di un sensore.”
Ho sempre cercato di far parlare le foto, spronarle a raccontarmi qualcosa. E mi arrabbiavo quando non ricevevo nessuna risposta. Quel giorno, però, una cosa l’ho capita.
Le fotografie non parlano.
Bella scoperta Marco, penserete voi. Ma il 19 Giugno ho capito l’importanza del colpo d’occhio. Ho capito che non si può comprendere qualcosa racchiuso in una cornice senza considerare tutto ciò che ne sta fuori.
Non è il “Bacio” in sè che ho nella mia memoria, ma quei pomeriggi interi passati a giocare nella camera di mio zio. Robert Doisneau mi ha solo dato il mezzo, una chiavetta USB dove raccogliere tutto.
Grazie Ugo per la pazienza che hai avuto e per avermi fatto finalmente capire che a volte le cose andrebbero viste con gli occhi innocenti di un bambino.
Marco Cossaro
Da sinistra: Ugo, Francesca, Anna e Margherita, straziati dopo l’intervista.